Recensione “Sisters of no mercy”

SistersOfNoMercy-20131211Un’immagine del dibattito seguito alla proiezione. Da sinistra a destra: Michele Zanin, Yvonne Mattevi, Lukas Roegler, Fernanda Alfieri, Cecilia Nubola

Mercoledì 11 dicembre al cinema Astra c’è stata la proiezione del film documentario “Sisters of no Mercy” di Lukas Roegler , proiezione organizzata dall’Associazione L’AltraStrada di Trento e dal gruppo di Trento di Amnesty International. Un film che racconta, attraverso sequenze e sezioni divise in capitoli, la tratta umana che dall’Africa, in particolare dalla Nigeria, fa arrivare donne e ragazze, alcune delle quali minorenni, sulle nostre strade. Ogni sequenza, capitolo, si apre con l’immagine a fumetti del particolare momento della tratta di queste giovani ed è accompagnata da una particolare musica tribale. Tribale è il rito che compiono prima di arrivare nel nostro Continente, dove credono di trovare un buon lavoro, ignare del loro destino. Arrivate qui le troviamo a fare del loro corpo una merce, che comprano i “clienti”, uomini che offendono la dignità umana.

Arianna Covi Arrighetti

Commento su “El Gigante”

Giovedì 7 novembre al Centro Polifunzionale dell’Opera Universitaria, all’interno del festival “Tutti nello stesso piatto”, è stato proiettato “El Gigante”, un documentario di Bruno Federico. Siamo in Colombia e le multinazionali Enel/Endesa e Impregilo hanno deciso di costruire una centrale idroelettrica, che potrà diventare il simbolo e l’acceleratore del progresso economico del paese. La classe dirigente parla di un grande progetto che porterà prosperità e benessere. Ma pochi sanno, e questo documentario fortunamente lo mostra al pubblico, che la diga chiamata “El Quimbo” costringerà gli abitanti della valle del fiume Magdalena ad abbandonare le proprie case. Sommergerà case, flora, fauna, colpirà duramente la gente, le loro abitudini e le loro professioni. Lavori tanto amati e di estrema necessità, per persone che vivono in povertà e che hanno solo la loro terra da coltivare o il pesce da pescare. Il film racconta come questi abitanti coraggiosi non siano disposti ad accettare le false promesse della classe dirigente “alleata” con le multinazionali per proteggere i propri interessi. Non accettano questa situazione di completo disastro e non accettano di perdere tutto ciò che da senso alle loro vite: vanno in piazza, manifestano, si scontrano con le forze dell’ordine. La contrapposizione tra gli interessi economici dei potenti e la vita dei poveri contadini e pescatori: questo cerca di mostrare “El Gigante”, un documentario che esprime fin dove l’essere umano può spingersi per soddisfare i propri interessi, il grande benessere frutto del consumismo e di una società sempre più materialista.

Elena Franchini

 

Breve resoconto su FLCG 2013

FLCG 2013 002Durante lo scorso fine settimana il gruppo di Trento di Amnesty International e’ stato presente alla fiera “Fa’ la cosa giusta!”.
Come sempre, la fiera è stata un’occasione unica per entrare in contatto con persone sensibili verso le nostre tematiche e disponibili a sostenere le nostre azioni a difesa dei diritti umani.
Durante il fine settimana, abbiamo raccolto firme sui seguenti appelli:

Abbiamo raccolto oltre 250 firme sia per l’appello relativo alle Barbados sia per quello relativo a Trinidad e Tobago e oltre 300 firme per l’appello sulla violenza contro le donne in Egitto.
Grazie a tutti coloro che hanno scelto di firmare i nostri appelli e di aiutarci nella nostra lotta contro le violazioni dei diritti umani.

Un ringraziamento anche agli organizzatori di “Fa’ la cosa giusta!” per lo sforzo di portare avanti anno dopo anno un evento cosi’ importante.

 

Un “rifugio” per i diritti umani

Questa volta abbiamo voluto cimentarci in una “escursione” sul Monte Stivo, per dimostrare che la difesa dei diritti umani può benissimo arrivare anche in alta quota! Grazie all’ospitalità di Matteo Calzà, simpatico gestore del rifugio “P. Marchetti”, sabato 20 luglio 2013 abbiamo allestito una serata di luna piena (beh, la luna piena c’era a prescindere) comprensiva di cena e proiezione di un film patrocinato da Amnesty: “The Road to Guantánamo”. Attrezzati di tutto l’occorrente (striscione, magliette, appello per la chiusura di Guantánamo e … DVD!) siamo partiti da Malga Campo (Drena, località Luch) sotto il sole generoso della montagna, arrivando sani e salvi e in perfetta tabella di marcia dopo 2 ore di cammino agli oltre 2000 metri della nostra destinazione.

Nonostante non si sia presentato il “pienone” (alla serata hanno partecipato una ventina di persone), l’evento è stato accolto con grande partecipazione e interesse. Abbiamo iniziato con un’ottima cena: minestra di orzetto e verdure, polenta e gulasch, formaggio alla piastra, crauti e fagioli, senza dimenticare un po’ di vino rosso. Poi abbiamo dato inizio alla proiezione di “The road to Guantánamo”, il film documentario diretto da Michael Winterbottom e Mat Whitecross che ha vinto il premio per la miglior regia al festival di Berlino del 2006. Il film narra la storia vera di quattro giovani inglesi di origini pachistane che, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, partono per la loro terra di origine in occasione del matrimonio di uno di loro. Arrivati in Pakistan vengono convinti a partire per l’Afghanistan per aiutare la popolazione in difficoltà. Tre di loro (in quarto viene ucciso durante un bombardamento) vengono catturati dall’esercito statunitense e accusati di appartenere ad Al Qaeda. Trasferiti segretamente nel carcere di Guantànamo Bay verranno sottoposti a terribili interrogatori, torture e trattamenti inumani, per essere rilasciati più di due anni dopo senza che fosse formulata alcuna accusa contro di loro.

Il film testimonia una situazione inaccettabile che prosegue dal 2002, da quando il carcere di Guantánamo (come altre strutture, ad esempio Bagram in Afghanistan) ospita presunti terroristi islamici (166 in questo momento) in condizioni di deprivazione e violazione dei diritti umani e in stato di detenzione illegale, senza alcuna accusa chiara e formale. L’Amministrazione Obama ha ribadito più volte, l’ultima appena due mesi fa, la necessità di chiudere il centro di detenzione di Guantánamo Bay, senza che finora si siano fatti passi risolutivi in questa direzione. Alcuni detenuti (molti rinchiusi dal 2002) hanno iniziato uno sciopero della fame nel febbraio scorso, per denunciare il peggioramento delle condizioni di detenzione e le perquisizioni arbitrarie nelle celle.  Con l’appello presentato e fatto sottoscrivere durante la serata, Amnesty International chiede l’immediata chiusura del centro di detenzione, ed esorta le autorità americane a intraprendere dei processi giusti ed equi in corti federali, invece di abbandonare i prigionieri in uno stato di detenzione illegale a tempo indeterminato.

Al termine della serata, mentre uno di noi è rimasto in rifugio a dormire, il gruppo di attiviste è stato riaccompagnato a valle dalla chiara luce di luna piena e …. dalle piacevoli canzoni di due giovani coristi di montagna, che speriamo vengano ancora a trovarci in uno dei nostri prossimi eventi!

Arianna Pisetti

DIRITTI UMANI NEGATI IN ITALIA: VIOLENZA DI GENERE E FEMMINICIDIO

Il workshop sulla violenza di genere tenuto dalla professoressa Donà ci ha permesso di leggere diverse sfumature sul dibattito in questione.
Quando si tratta di violenza di genere, il riferimento normativo a livello internazionale è rappresentato dalla  CEDAW, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite, il qual documento si è confermato negli anni il punto di riferimento a livello internazionale attraverso il quale gli stati  sono stati chiamati a mantenere alta l’attenzione verso i diritti delle donne.
Per poter entrare nel merito della questione, durante il workshop è stata fatta una lettura della Raccomandazione generale n19 sulla violenza di genere adottata nel 1992 dal Comitato Cedaw e della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne adottata nel 1993 in occasione della conferenza sui diritti umani di Vienna. In entrambi i documenti, è stato interessante esaminare la definizione non solo del concetto di uguaglianza (da intendersi di diritti umani), ma soprattutto di  violenza, fenomeno che può manifestarsi in molteplici modalità non solo di tipo fisico-coercitiva, ma che rinvia a  tutte le forme di limitazione della libertà della donna, tra cui anche quelle di tipo  economica e psicologica.

Durante la tavola rotonda successiva al workshop, la professoressa Donà ha potuto oltretutto sottolineare come la violenza di genere sia prevalentemente agita all’interno della sfera domestica, mentre la violenza contro le donne associata  alla criminalità di strada costituisce la minoranza dei casi denunciati. Inoltre, alla luce delle osservazioni conclusive redatte periodicamente dalla  commissione CEDAW, risulta che l’Italia  non sia  più manchevole di altri stati dal punto di vista del corpus normativo in vigore in materia. Il vero problema risiede infatti nella capacità di attuare quelle norme, il che rinvia all’azione di filtro operata da una cultura di genere tradizionalista propria di chi dovrebbe applicare quelle norme.  Ad esempio, ci si pone la domanda se nel trattare i casi di violenza gli operatori delle forze dell’ordine, della giustizia, del settore sanitario sono adeguatamente formati?

Il workshop tenuto dalla professoressa Donà ha messo in luce alcune misure adottate a livello internazionale e nazionale, ma l’esplosione del dibattito è propriamente avvenuta durante le ultime battute della giornata. Studenti e non hanno preso parte ad un acceso scambio di vedute specialmente sulle questioni di genere. Le mancanze culturali sono evidentemente ancora molte, e molto ancora il dialogo da produrre. Quel che è certo, è che in futuro l’Italia in materia di diritti non potrà più tenere gli occhi chiusi di fronte alle tematiche di genere. L’approvazione della ratifica della Convenzione di Istanbul da parte della Camera dei Deputati lo scorso 28 maggio è un esempio di come nuovi passi in un percorso verso la piena attuazione dei diritti umani sia più che mai urgente e necessario, nonché attuale.

Parità di diritti, riconoscimento del valore della donna e della sua presenza nella società sono strade che l’Italia dovrà percorrere se vorrà definirsi un paese che rispetta  i diritti umani. Come ha suggerito Pobbiati durante l’apertura della tavola rotonda: è tempo ormai di buttare alle spalle, chiudere il capitolo della violenza di genere alle spalle della storia, per far trionfare il progresso umano.

Alessia Donà è ricercatrice in scienza politica presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale e membro del Centro studi interdisciplinari di genere dell’Università degli Studi di Trento . Tra le diverse pubblicazioni troviamo “Genere e politiche pubbliche. Introduzione alle pari opportunità.”, Milano : Bruno Mondadori, 2007.

DIRITTI UMANI NEGATI IN ITALIA: CARCERI E SITUAZIONE DEI DETENUTI

Che in Italia ci sia il problema del sovraffollamento delle carceri è tristemente noto.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il trattamento dei suoi detenuti addirittura due volte: spazi ridottissimi, poco tempo e a volte mancanza della famosa ora d’aria all’aperto, condizioni igienico-sanitarie degradanti, spazi comuni insufficienti e inefficienti possibilità per il detenuto di adire alle autorità giudiziarie per i propri diritti. Tutto questo è facilmente sintetizzabile: sovraffollamento e legislazione fallace.

Ma quello che ci si domanda è: cosa comporta? Perché ce ne dovremmo preoccupare? Sono criminali e devono pagare per quello che hanno fatto, o no?

Forse ci si dimentica che la prigione non debba essere solo una punizione, ma anche e soprattutto un’opportunità per migliorare, per essere rieducati alla convivenza civile e tornare poi in una società nella quale si riesca a vivere in armonia.

Troppo spesso però queste esigenze non vengono perseguite adeguatamente, anche e proprio perché  il sovraffollamento impedisce la piena attuazione del trattamento rieducativo.

Le condizioni disumane in cui vivono i nostri detenuti non permettono una loro rieducazione, motivo per cui il tasso di recidiva è alto e molti dei detenuti ritornano in prigione. È un cane che si morde la coda: sebbene la criminalità in Italia sia diminuita (al contrario di quanto non sia percepito) le stesse persone che escono dal carcere, hanno una grande probabilità di rientrarci.

Quali soluzioni allora? Le misure alternative, tra cui la semi-libertà, la mediazione penale, l’educazione e la formazione professionale, il lavoro esterno ed interno al carcere in quanto riabilitativo… Sono tante le cose che si potrebbero fare, se solo ci fosse più attenzione da parte dell’opinione pubblica e della classe politica dirigente.

 La Prof.ssa Antonia Menghini della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento ha spiegato con chiarezza questo e molto altro, facendo riferimento a fatti, leggi e sentenze. Un interessante workshop che ci ha fatto riflettere e aprire la mente su un argomento del quale non si pone, solitamente, la dovuta attenzione.

Il teatro dell’Oppresso: Scusi lei non può rimanere qui

Venerdì 17 maggio, giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, la sala della Filarmonica di Rovereto ha ospitato con successo lo spettacolo di Teatro dell’Oppresso Scusi lei non può rimanere qui della compagnia “L’altra faccia del Dado” di Verona. L’evento è stato organizzato da Fabio Fasoli e Simone Sulpizio, giovani ricercatori delle Università di Padova e di Trento, nell’ambito del progetto Omofobia, stereotipi sessuali e informazioni veicolate dalla voce. Eravamo lì come attivisti, a raccogliere firme per sollecitare le indagini sull’assassinio di Noxolo Nogwaza, giovane sudafricana uccisa a causa del suo orientamento sessuale, e per raccogliere messaggi di solidarietà per gli attivisti LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuati) sudafricani; ed eravamo lì come persone, a osservare la messa in scena di un paradosso fin troppo vero e fin troppo noto:

Laura trova Luisa, sua compagna da quindici anni, svenuta in bagno. Chiama l’ambulanza e corre in ospedale. Da quel momento non le è più concesso avere notizie della salute della sua compagna: non è una parente e, per la legge italiana, condividere la vita con Luisa non le dà alcun diritto. A decidere le cure per Luisa è sua sorella Maria Vittoria, feroce donna in carriera che non ha tempo e voglia di ascoltare le parole di quella che con ironia chiama “l’amica di mia sorella”. Laura non può più vedere la sua compagna ed esserle vicino quando purtroppo muore. Viene allontanata dalla bara durante il funerale e tenuta a distanza di sicurezza. E, come se non bastasse un mese dopo Maria Vittoria irrompe nella casa che Laura e Luisa condividevano rivendicandone la proprietà: la casa era di Luisa e, per la legge, Laura è solo un’ospite.

Il teatro dell’Oppresso è una forma di teatro interattivo sviluppata dal registra brasiliano Augusto Boal, che ha lo scopo di rendere gli spettatori consapevoli dei conflitti sociali e delle ingiustizie attraverso il loro coinvolgimento attivo sulla scena. Il punto è: cosa puoi fare per cambiare le cose? A turno si poteva salire sul palco e cercare di cambiare il corso della storia. La scena si ripeteva in continuazione, con nuovi personaggi, nuovi sviluppi, differenti tentativi di risoluzione del conflitto e di riparazione delle ingiustizie e discriminazioni subite da Laura.Ma, complice la bravura degli attori, a ogni tentativo di risoluzione, un nuovo muro si erigeva. E si ritornava al punto di partenza.

La storia di Laura e Luisa è solo un esempio di situazioni che conosciamo fin troppo bene. La legge italiana non prevede il matrimonio per coppie omosessuali, non riconosce i matrimoni e le unioni celebrati all’estero, e non garantisce pari diritti ai figli di coppie omogenitoriali.  Mentre in Europa si legalizzano i matrimoni per coppie omosessuali, in Italia l’omofobia non è ancora criminalizzata. Nella nostra legislazione l’omofobia e la transfobia non sono considerate possibili cause di discriminazione. Le vittime di reati di natura discriminatoria basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere non hanno la stessa tutela delle vittime di discriminazione razziale o religiosa.

Qual è dunque la soluzione per tentare di cambiare lo stato delle cose? L’ultimo spettatore salito sul palco suggeriva il meccanismo della pressione sociale: la perfida Maria Vittoria, quando visita Laura con l’intenzione di sfrattarla, si trova di fronte un amico della donna, che promette di denunciare all’opinione pubblica la sua omofobia. Questo è il lavoro che fa Amnesty International: denuncia delle discriminazioni e promozione dei diritti delle persone LGBTI. Amnesty, all’interno della campagna “Per un’Europa senza discriminazione”, appoggia e sostiene le iniziative delle associazioni LGBTI, con lo scopo di promuovere la libertà di espressione e di riunione delle persone LGBTI.  Amnesty continua a chiedere agli stati una maggiore tutela delle vittime di discriminazione per l’orientamento sessuale e l’identità di genere.

Penso ancora che sarei voluta salire anche io sul palco. L’hanno fatto in tanti, ognuno a suo modo. Della serata resta chiara in noi la bella consapevolezza che tutti nella sala condividevamo un’idea: la protezione dei diritti umani non prevede eccezioni.

Francesca